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lunedì 9 gennaio 2012

INTERVISTA A MARINO SEVERINI (THE GANG) 1986


Questa è una storia biografia uscita per "Giorni contati" una rivista a cura del circolo Gianni Bosio di Roma, uscito nel settembre 1986.

Ho trascorso la mia infanzia in una frazione (circa 300 abitanti) di Filottrano, in provincia di Ancona: l'imbrecciata. Mio padre è muratore ed ha fatto questo mestiere per tutta la sua vita; suo padre era carrettiere. Mia madre viveva, prima di sposarsi, in paese; la sua è una famiglia di falegnami, padre e fratelli. Per molto tempo ha fatto la sarta, poi ha lavorato nelle Confezioni di Filottrano, un'industria tessile-abbigliamento. Ai tempi della mia infanzia (sono del maggio 1956) l'Imbrecciata era una piccola comunità, o meglio una specie di tribù, dal momento che i suoi abitanti erano in gran parte parenti fra loro, quasi tutti della famiglia Severini. Molti erano emigrati nel dopoguerra in Sud America, più che altro in Argentina, spinti dalla necessità, dal desiderio di far fortuna (gli «alti salari» di Peron...) e tornare con un po' di soldi per farsi una casa e mettersi a lavorare in proprio. Negli anni '60 alcuni tornarono senza aver fatto fortuna e pronti a ricominciare da capo. Questo spiega perché molti parlavano il «castigliano» e perché portarono un gioco di carte che è il «trucco», d'importazione argentina (una specie di poker per i poveri). Ricordo dì quel tempo molte storie legate a quell'esodo, soprattutto storie di miseria, di galera (molti avevano imparato a fare un lavoro, come impagliare cesti e simili, in galera); insomma, storie delle piccole comunità paesane che si erano formate in Argentina già dopo la prima guerra mondiale.
Mio padre non è mai emigrato, a differenza di tutti i suoi fratelli, e ha lavorato da quando aveva 14 anni come muratore. È stato con la stessa ditta per più di 35 anni, ha avuto diversi incidenti sul lavoro e ne porta i segni in faccia e nel resto del corpo, si è preso molte malattie tipiche del lavoro che fa: ernia, artrosi e per finire è dovuto andare in pensione perchè ora soffre di angina pectoris.
Quando ero piccolo lui lavorava sempre fuori del paese, tornava a casa la sera e non ci siamo visti molto, siamo stati cresciuti sia io che mio fratello da mia madre che allora lavorava a casa. lì desiderio di mio padre è sempre stato di costruirsi una casa per sé, dato che le ha sempre costruite per gli altri, e che i suoi tigli non dovessero fare mai il suo lavoro. Quando tornava a casa certe sere ci faceva vedere le mani spaccate dalla calce o dal freddo e ci diceva che ci avrebbe spaccato la testa se un giorno avessimo lavorato come lui. Mio padre risponde alle caratteristiche di quello che Pizzorno (in Comunità razionalizzazione) chiama «l'operaio arrivato» che misura la riuscita del proprio lavoro e della sua vita con due tappe: la casa come sicurezza e la scuola come trasmissione ai figli delle proprie aspirazioni.
Mio padre inoltre è stato sempre un comunista anche se non iscritto al partito e queste sue aspirazioni erano mischiate col desiderio di giustizia sociale: «devi tare l'avvocato e essere rispettabile per difendere chi non ha niente». È questo che voleva dai figli, e io l'ho usato nei primi tempi, come alibi per non trovare un lavoro fisso, potevo mangiare tuffi i giorni, non pagare l'affitto, anche se questo comportava vivere a casa. Ma avevo tempo per fare quello che mi pareva e non sentirmi fregato. Le scuole elementari le ho frequentate all'Imbrecciata. I maestri si interessavano solo dei pochi che avevano voglia di studiare; il resto era già condannato, a sei anni, al futuro prevedibile - poliziotto, muratore, arrangiarsi alla meno peggio. I genitori erano consapevoli di questo (e credo inconsciamente anche molti di noi) e il loro problema era far crescere i figli il più presto possibile per poi poterli mandare a lavorare in modo che portavano soldi a casa.
Fuori della scuola c'era la strada; non c'è stato nessuno della mia età che non è stato investito almeno una volta da un'automobile. Sì giocava a pallone per strada, oppure si «rubava» ai contadini sull'esempio dei più grandi, fedeli alla tradizione di ladri di campagna che avevano i nostri genitori. Si cresceva. Già in quei tempi i carabinieri venivano a casa o a scuola per intimidirci e «rimproverare» i nostri genitori per gli «atti vandalici» che compivamo nella zona. Mia madre, che per il fatto di venire dal paese e la sua attività di sarta era considerata un gradino più in alto nella scala sociale, non mi permetteva di frequentare molto i coetanei, e cosi passavo molto tempo con le apprendiste, le clienti e le amiche della mamma. A otto anni, questo vivere un po' da solo (anche a scuola ero il primo della classe) mi portò a quella che con un sorriso chiamerei crisi religiosa, volli entrare in seminario benché mio padre facesse di tutto per dissuadermi, ma questa esperienza durò ben poco e fu uno dei miei primi fallimenti.
Alle medie, pur continuando ad essere il «secchione» della classe, andai sempre d'accordo con le «pesti», con i ripetenti, ed ebbi come compagno di banco sempre uno dei meno adattati alla vita di scuola (questo continuerà anche alle superiori). In questo modo cominciai ad avere tutta una serie di amici «non molto raccomandabili»; la maggior parte venivano dalla parte vecchia di Filottrano, figli di piccoli artigiani. Benché fossi più piccolo e venissi dall'Imbrecciata ero tenuto molto in considerazione da tutti. Sono quelli gli anni dell'esodo dalle campagne, dalle frazioni. C'era disprezzo, ereditato da una cultura paesana conservatrice, per i contadini, tanto che «contadi'» era usato comunemente per indicare arretratezza. Uno dei divertimenti preferiti dei miei amici era appunto picchiare qualche «contadi'» quando si presentava l'occasione, soprattutto la domenica pomeriggio. Questo è avvenuto fino a una decina di anni fa, ed è tipico della «destra dì paese». I contadini, fino al loro esodo negli anni '68-70, vivevano in grande povertà; quasi tutti erano mezzadri e questo spiega il disprezzo delle famiglie terriere prima del boom economico. Inoltre erano bersaglio dei poveri di paese, sia perché questi essendo in larga parte artigiani si sentivano più elevati socialmente, sia perché in seguito i contadini «rubavano» il posto in fabbrica e pian piano diventavano proprietari di negozi o imprenditori in attività che lasciavano fuori gran parte dei paesani. In quel tempo facevo parte della banda della Torre (un quartiere della vecchia Filottrano), avevamo una squadra di calcio e con le altre «bande» ce le davamo di santa ragione per qualsiasi motivo (la scuola interclassista ci insegnava a stare insieme, ma nel tempo libero tornavamo quelli dì sempre). Da queste piccole bande di zona nascono i club. Erano delle cantine piene di muffa, di ragni e di umidità che rimettevamo a posto con qualche sedile di auto, qualche poster, un vecchio divano per i più audaci, un mangiadischi. Lì si passavano i pomeriggi senza fare niente di speciale e si aspettava la domenica per le puntuali teste.
In queste cantine nascono diversi gruppi musicali. È la seconda stagione musicale del paese perché già esistevano gruppi come i Leopardi, gli Stoici, le Ombre (che avevano riscosso un buon successo in Turchia, dove suonavano da anni): gruppi che suonavano nelle sale da ballo e oltre ai motivi da Hit parade (quella di Luttazzi) suonavano pezzi beat e poi AnimaIs, Creedence Clearwater Revival, Hendrix, Led ZeppeIm, Vanilla Fudge, rhythm and blues. Erano i beat dì provincia, protestavano contro tuffo e tutti, anarchici individualisti, era una formula riduttiva per dire «faccio quello che mi pare», i primi capelloni, camicie a fiori, grosse cinte, motonni e lambrette truccate. Gli stili comunque erano già diversi: mentre i Leopardi erano più «psichedelici» anche nei gusti musicali, gli Stoici erano molto vicini ai Mods, lambrette e soul music. Questi che erano i nostri fratelli maggiori hanno costituito per me e i miei amici dei modelli, dei piccoli eroi da imitare anche per il fatto che avevano intorno un sacco di ragazze pur non avendo una lira in tasca. Erano una provocazione alla noia di paese, questi beatniks erano degli appestati, nessun genitore voleva che i figli li frequentassero, specialmente le figlie.
Non riuscirono però ad andare al di là della provocazione, della nota di colore, nessun gruppo riuscì a creare un proprio stile. Tutti restarono nell’ambito della ripetizione, dei modelli stranieri. Questo perché si pensava soltanto a divertirsi, non c'era coscienza di un discorso autonomo dal punto di vista culturale.
Ho imparato a suonare la chitarra molto presto (10-13 anni) da un mio vicino di casa, Lucio, che suonava nelle Ombre. Dopo diversi anni passati a suonare in Turchia tornò a casa e mise su un gruppo nuovo con elementi locali, ma ben presto si sposò e l'unico lavoro che sapeva fare era il muratore. E’ morto pochi anni fa in un incidente sul lavoro, è a lui che abbiamo dedicato il primo disco.
Nessuno dei gruppi vive direttamente l'esperienza del '68, anche se a Filottrano c'erano le lotte degli operai della Orland (ex Confezioni di Filottrano), che fallisce nel 1970 dopo occupazioni, sgomberi, arresti. La disgregazione di questa realtà giovanile di paese avviene a causa del lavoro. In quegli anni si trova facilmente un lavoro fisso con uno stipendio "onorevole" e subito si pensa a sistemarsi: la coppia fissa, un precoce matrimonio, Il lavoro e i club, i gruppi musicali muoiono.
Soltanto pochi di quelli che avevano vissuto fuori del paese per lavoro o per l'università continuarono l'esperienza dl lotte e militanza. I gruppi musicali con cui cominciai a suonare erano diversi per formazione e nei gusti musicali. Coi primi gruppi suonavamo soltanto alle feste, ai concorsi «canori» organizzati in paese; con altri tentavamo di suonare dei pezzi nostri ispirandoci a gruppi come Banco e PFM. Per comprare la strumentazione ci fece da garante il parroco. l'unico che poteva aiutarci economicamente, perché a casa nessuno vedeva di buon occhio la faccenda Allora c'erano molti gruppi musicali in tutti i paesi vicini che fecero la fortuna di due negozianti di strumenti musicali, Princi a Macerata e Castellani in Ancona. Castellani ci diede la strumentazione con la garanzia del parroco che se entro un certo tempo non avessimo pagato i due terzi dell'importo totale ci avrebbe tolto tutto e trattenuto i soldi già avuti. Infatti accadde che non potemmo pagare in tempo e ci portarono via tutto. Era costume che il primo concerto, la prima apparizione di un gruppo, avvenisse insieme a gruppi già collaudati al circo durante un fine serata; il circo era quello Takimiri, che arrivava in paese ogni autunno. Oltre al club c'era l'oratorio, che per me e i miei amici durò fino a una certa età; poi migrammo tutti in un bar. lì bar ci faceva sentire più grandi, potevi bere o fumare senza chiuderti in un buco, potevi guadagnare qualche soldo giocando a carte o al bigliardo. Il gestore ci permetteva di stare nel bar anche se non consumavamo perché portavamo lì qualche ragazza e il locale, diceva lui, ci guadagnava. La sera, d'inverno, si chiudeva presto e gli «affezionati» potevano vedere film pomo fino a tarda notte. Le scazzottate erano frequenti e la polizia non vedeva di buon occhio la gente che frequentava quei bar perché divenne presto un ritrovo della «malavita» del paese, ladruncoli di autoradio, pellicce, piccolo giro di droga. Insomma il gestore viene arrestato e il bar cambia clientela. Il gruppo dove stavo allora era diventato grande, eravamo una ventina e avevamo una decina di ragazze che stavano con noi (in quei tempi la terminologia era questa).
Ci vestivamo di pelle, imitavamo gli Hell's Angels sull'onda di Easy Rider e del revival del Selvaggio, ci piacevano i Creedence Clearwater. Non avevamo certo grosse moto, ci eravamo impegnati a truccare i motorini e il divertimento era farci inseguire da qualche camionetta dei carabinieri. lì maresciallo ci dichiara guerra, fa chiudere ogni club che apriamo, ci sequestra diversi motorini. Io e Gianni (uno dei miei migliori amici, figlio di un confinato napoletano) veniamo presi un paio di volte e sbattuti dentro. Intorno ai 1973-74 nel gruppo gira parecchia roba: droghe leggere, hashish e marijuana. Già eravamo dediti a un gran consumo di alcolici, e la droga è un modo diverso per stare insieme, ci fa sentire ancora più diversi e più complici. L'uso di droghe faceva parte di un «progetto», di un modo di vivere diverso; poi tutto questo perde importanza e si assiste a un processo di individualizzazione nel consumo, le sostanze sono sostituite dall'eroina anche grazie a maggior disponibilità di denaro. I bar funzionano anche come gradini della scala sociale: sono luoghi chiusi con una clientela fissa (e io sono anche oggi). C'è il bar della piazza centrale frequentato dalla «crema del paese», aristocratici, vecchi diplomati, la borghesia di destra, insomma, che si mostra con gli abiti alla moda, le macchine lussuose, tutta sobrietà e buone maniere che fanno dimenticare che erano repubblichini, autori di picchiaggi e purghe e rappresaglie (a Filottrano sono dieci i civili uccisi da tedeschi e fascisti durante la ritirata). Per molti giovani frequentare questo bar significava avere prestigio; anche molti miei amici dell'adolescenza sono diventati picchiatori e attivisti del Msi solo per godere di queste amicizie altolocate e dei favori dei «potenti» dei paese.
Poi c'é il bar dello sport, dove ci sono i sostenitori della squadra di calcio, piccola borghesia arricchita negli anni del boom (negozianti e terziario>, anche questa ai destra, che ha dimenticato il suo passato difficile. È il calcio che li tiene insieme; la squadra locale è amministrata da tutta gente del Msi, e spiega molto del prestigio di questo partito che è il terzo dei paese (la DC ha la maggioranza assoluta).
Nel 1970 vado al liceo scientifico a Osimo, unico figlio di operai della classe; solo più tardi entreranno altri tre ragazzi che vivono in un istituto per figli di emigrati all'estero, e con loro ho un forte rapporto di amicizia, specialmente con Franco (è calabrese, i suoi genitori lavorano in Germania, vengono a trovano solo a Natale). Sono presto stanco di questo ambiente ma non riesco a scrollarmelo di dosso e continuo alla meno peggio. Ma intanto, anche grazie al mio professore di filosofia, diventai comunista, acquistai coscienza della classe a cui appartenevo (che forse già avevo per l'educazione dei miei genitori, ma che approfondii sui libri e poi in una serie di lotte che presto arrivarono). In quegli anni viaggio molto in autostop: decine e decine di concerti e raduni, Parco Lambro, Umbria Jazz, Licola, Ravenna... una realtà giovanile che stava producendo il "movimento del '77". Nel 1974-75 nasce a Filottrano, su iniziativa di alcuni universitari, una sede del Pdup: seminari per costruire buoni quadri di partito. Ma l'ingresso di un nuovo gruppo (tutti amici e compagni di scuola di mio fratello) determina una scelta politica diversa, quella dell'autonomia. I nuovi (capeggiati da «Johnny Guitar», che poi formerà The Gang con me) erano gli indiani metropolitani di Filottrano, che terrorizzavano la borghesia paesana perché non erano solo beats folkloristici ma parlavano di quel che voleva dire essere apprendisti nelle piccole fabbriche, delle intimidazioni dei carabinieri, del loro «personale». Ogni domenica in piazza si organizzava una mostra, un intervento, una manifestazione per gli spazi autogestiti. Sono gli anni della crisi: le due fabbriche più grandi sono in cassa integrazione, niente nuove assunzioni, crescono come funghi le piccole imprese e il lavoro nero; sono «avventurieri» disposti a tutto, niente sindacati in fabbrica, licenziamenti senza motivo, fallimenti continui.
Anche per i contrasti col sindacato e il Pci, e per i continui pestaggi e aggressioni dei fascisti, si determina un isolamento del collettivo, anche se a Filottrano per circa un anno si tengono incontri con tutti i gruppi e le realtà della zona e questo determina un'enorme crescita di coscienza e di cultura. Poi, sulla scia del «fallimento» del movimento e del riflusso, e per tutta una serie di motivi personali il collettivo chiude. C'è una disgregazione del gruppo, piovono denunce, perquisizioni, qualche arresto, C'è anche paura. A Firenze, insieme a mio fratello, vengo pestato a morte da poliziotti in borghese e fermato. Mi scrivo all'università solo perché mi permette per il momento di non entrare negli ingranaggi, ma non ho mai partecipato alla vita universitaria. Con la fine del collettivo resto solo, ho un forte esaurimento nervoso a causa degli eccessi di alcool e droga, e tutto mi porta all'isolamento. L'unico con cui resto in contatto è mio fratello) che mi propone di ricominciare a suonare e mettere su un gruppo. Torna a casa Johnny Guitar, e cominciamo a suonare insieme blues, rock'n'roll, rhythm and blues, i vecchi amori che avevamo in comune (nel collettivo molti suonavano un po' di tutto: canzoni popolari, di protesta, di lotta; organizzavamo spesso concerti con gruppi della zona, discutevamo dei gusti, delle radici musicali). Un viaggio a Londra nel '79 ci permette di conoscere da vicino la realtà punk, e come non entusiasmarsi, non rimettersi in marcia sulla strada principale? Nell'80-'81, i gruppi nascono a decine, la rabbia punk scoppia nella provincia clericale e bigotta. Formiamo The Gang: (prima avevamo suonato con Ranxerox, tre ragazzi di Osimo, poi Sandro e io ci staccammo,e a Macerata trovammo Pino (Buster) e Pete (Bum Bum), bassista e batterista, non tanto per motivi musicali quanto per le idee politiche e le esperienze di vita. A Macerata c'erano diversi gruppi punk-rock. Fino allora c'era il mito della velocità, della svisata più veloce, un po' come tra i pistoleri dei western. Non tutti gruppi reggono - lavoro fisso, eroina... per molti è solo una stagione più o meno eroica, ma The Gang continua anche perché a me e Sandro interessava creare un suono di gruppo, e la lunga gavetta prima del disco ci ha permesso di impossessarci di una lunga tradizione di rock e musica nera. Prima ci chiamavamo Paper's Gang, perché la mia famiglia in paese è soprannominata "Paporè", allora l'hanno inglesizzato ed è diventato Papers. E "Gang" per ricordare le vecchie bande di strada e di bar che fanno parte della nostra memoria storica; sono cambiati contorni, strutture, funzioni della gang moderna, ma resta un tessuto e un'esigenza di aggregazione al margine dei sistemi di produzione e del mercato del lavoro. Fino al 1977, la combattività operaia convogliava le spinte giovanili in un ambito politico di militanza, tagliando fuori l'aggregazione «subculturale»; quando questo modello entra in crisi, l'opposizione scende sul personale e le bande riflettono gli orientamenti, la cultura, i cambiamenti della classe di appartenenza - nel nostro caso, la classe operaia. La banda può essere un'aggregazione (sotto)proletaria giovanile dalla quale può nascere una <'resistenza» in attesa di un momento diverso. Certo, tutto questo è periferia; finché non si riesce a riportare lo scontro al centro della produzione tutto si esaurirà in «eroiche stagioni», ma adesso siamo con le spalle al muro e questo è il campo di battaglia che ho scelto: il rock and roll. (A proposito: una cosa sui nostri «nomi di battaglia». Non li abbiamo scelti perché vogliamo «fa' l'americano»: abbiamo semplicemente, come Malcolm X, preso nomi che venivano dalla nostra storia e cancellato i nomi da "schiavi" che servivano solo per controllarci).
Scelgo il rock perché per me è musica popolare urbana subculturale internazionale, il mezzo che ci è rimasto per esprimersi e comunicare. Nei testi - che scrivo io - cerchiamo di descrivere stati d'animo, momenti in cui chi fa certe esperienze possa ritrovarsi usando la sua immaginazione. Amo i beats, Gìnsberg, poi Dylan e Kwesi Johnson. Come dice Springsteen, abbiamo imparato più da tre minuti di disco che da tutti gli anni di scuola.
Il rock, importato dall'America, è solo l'ultima delle tante invasioni di cui è fatta la nostra cultura, che da sempre è fatta di contaminazioni non necessariamente imposte o artificiali. Fin dalle origini, il rock and roll è una fusione dì stili diversi, che permette lo sviluppo di un linguaggio internazionale dei gruppi e minoranze oppressi e periferici, lo scambio e la creazione di una cultura diversificata ma unita per la denuncia. Un esempio è una nostra canzone, «The Last Border»: qui la fusione è tra una melodia della fisarmonica dell'Est, zigana, e un ritmo della frontiera Texas - Messico; eppure questa canzone avrebbe potuto nascere solo qui, da noi, influenzati da tutte queste culture, musiche, melodie. È una canzone da ultima frontiera. L'interesse che abbiamo per la musica latino-americana (e per la situazione di quei paesi) ci è stato trasmesso direttamente dai nostri parenti che sono emigrati; quello per la musica popolare dal contatto col paese, dove c'è sempre stato un forte interesse per la musica e ancora oggi ci sono diversi suonatori di saltarello. Ma l'influenza maggiore sono i Clash: potrei scriverci un libro sopra; loro sono quelli più vicini alle nostre esperienze culturali e di vita. Quando nel '77 la parola d'ordine era «tutto ricomincia ora, quello che c'è stato prima è monnezza», e questo porta ad un'isteria, ad un abbaiare che musicalmente porta all'esaurimento precoce, con i Clash le cose sono diverse: loro sposano subito la realtà nera e la sua musica, da sempre spirito e guida del rock and roll; escono con un disco come Sandinista, che permette di ritrovare punti di riferimento per esprimersi; contaminano il rock, musica giovanilistica, con le musiche popolari... Mi hanno fatto sentire presente, vivo, potevo esprimere il mio presente senza rifiutare il mio passato, la mia cultura - e a testa alta. Un'altra cosa è che tutti lavoriamo. lo mi sono laureato in giurisprudenza, ma non ho nessuna intenzione di «usare» quel titolo; ho sempre fatto lavori precari, porto buste, carte, lettere per conto di enti. Sandro fa lo stesso lavoro, anche lui ne ha fatti un'infinità da quando ha smesso con la scuola al terzo magistrale; Saverio ha finito l'istituto tecnico e sta cercando un lavoro qualsiasi; Peppe è veterinario e ha aperto un ambulatorio con altri colleghi.
Il non essere musicisti di professione (anche perché se suoni questo tipo di musica in Italia difficilmente riusciresti a mangiare tutti i giorni> è secondo me un vantaggio, perchè ti permette di vivere la realtà dura dello sfruttamento, l'essere costretto a venderti per vivere ti fa avere sempre i piedi piantati nel reale.
Adesso non ho più molti amici a Filottrano, nè ci vivo molto; col gruppo abbiamo suonato in paese un paio di volte in quattro anni, e sono sorti diversi gruppi vicini alla nostra musica. Non credo comunque che quello che suoniamo influisca sulla realtà giovanile di Filottrano. Il modello perbenista, gli atteggiamenti e i valori di destra fanno presa sui giovani anche operai, apprendisti, sottoproletari. È salito ultimamente il numero dei furti (non solo di autoradio come ai vecchi tempi, ma nelle abitazioni e nei negozi), e la maggior parte è legata al bisogno di soldi per comprare droga ma anche una vespa, una macchina. Sono ragazzi che abitano nelle frazioni e che imitano i figli della borghesia paesana nei comportamenti, nei consumi. Nel paese c'è sempre stato un ricambio generazionale di gruppi col culto della forza, che si «realizzano» allo stadio o nelle discoteche.
Un altro fatto anch'esso ereditario è lo stupro, sul quale c'è sempre stata una grande omertà. Accade che ragazzine che vengono dalla campagna o lavorano come apprendiste nelle fabbriche vengono violentate o fatte entrare a forza in veri e propri giri di prostituzione. Prima questo fatto era gestito dai giovani missini, i "belli del paese" (e magari qualche ragazzina si illudeva di entrare così nel giro dei ricchi), ora viene imitato anche dai figli della classe operaia, i «duri» che sfogano le frustrazioni delle umiliazioni e dello sfruttamento giornaliero.
Forse sarà stato inutile avere raccontato tutto questo; ma ripercorrere questa storia è per me un modo di far capire la «ragione» del nostro gruppo e della nostra musica. Abbiamo fatto una canzone che si chiama "Badlands", e dice: «Ho seguito le tracce della razza che fugge / tra i reticolati della Miseria nella civiltà della Bomba».

C'è una scena in Pelle di serpente di Lumet, quando Carol alla fine raccoglie il giubbotto di pelle di serpente di VaI e dice: «Le bestie della giungla lasciano le pelli dietro di sè, le pelli pulite e i denti e le ossa bianche: e questi sono come segnali, che gli uni agli altri trasmettono in modo che la razza fuggitiva possa sempre seguire le orme dei suoi simili». 
Marino Severini

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